Trentacinque anni fa uscì un’opera di Barnett Pearce: Communication and the Human Condition. Il titolo evoca un testo di Hanna Arendt, The Human Condition, per la quale forse Pearce nutriva ammirazione. Tradussi e curai l’edizione italiana, insieme a Claudio Baraldi. Questo testo ricevette poco interesse allora, ma oggi pare profetico.
L’opera mette in rassegna diverse forme di comunicazione che assumono forma dominante in differenti periodi storici, condizioni culturali e personali, aree geografiche. Pensatore statunitense, Pearce era distante dalla concettualizzazione storico-sociale e dall’idea di conflitto capitalismo/socialismo che dominava il pensiero europeo in quegli anni. Cercava la tessitura nascosta dietro le usuali categorie della razionalità politologica. A quell’epoca, “comunicazione” non era, almeno in Italia, neppure disciplina da studiare.
Le forme di comunicazione individuate da Pearce sono modalità di relazione diffuse. Producono poteri e saperi – per dirla con Foucault – dominanti, marginali o dissidenti, secondo i casi. Per Pearce, comunicazione e cultura sono la stessa materia, con forma diversa, un po’ come l’acqua che scorre e il ghiaccio che rimane fermo. Finché c’è ghiaccio a sciogliersi, l’acqua scorre, ma che accade quando il ghiacciaio si esaurisce? La metafora di Pearce oggi è attuale.
Quante sono le forme della comunicazione?
Monoculturale
La prima, che l’autore designa come comunicazione monoculturale, è un fenomeno presente in aree comunitarie oggetto di interesse per gli antropologi. Con il lavoro sul campo, gli antropologi studiano comunità relativamente isolate, con pochi o senza rapporti con il mondo esterno. La comunicazione monoculturale ha però anche una declinazione interpersonale nella simbiosi: la relazione madre-infante, durante i primi mesi di vita. In questi casi l’Altro non c’è. La presenza dell’Altro – per esempio dell’antropologo che osserva la comunità monoculturale o dello psicologo che osserva la relazione madre-infante – costituisce già, di per sé, un turbamento e una trasformazione in altro. Così come in fisica l’osservazione di particelle comporta l’uso di strumenti che modificano quanto si osserva. La comunicazione monoculturale è linguaggio senza senso, vista da fuori, a cui è dato un senso da parte dell’osservatore etnografo, che, nel rendere familiare l’estraneo, immediatamente trasforma ciò che osserva in altro, lo cambia.
Quando l’estraneo – il non-nativo – entra in relazione con la comunità dei nativi, si crea il pronome personale plurale: noi/loro, ma non c’è la forma singolare io/tu. Il libro di Peter Mülhäusler e Rom Harre Pronouns and People, coevo con l’opera di Pearce analizza i pronomi in relazione alla condizione sociale dell’esistenza. Il linguaggio forma e forgia le relazioni attraverso la comunicazione e la coppia pronominale noi/loro crea l’esistenza linguistica dell’estraneo, la possibilità di concepire l’Altro che nasce e cresce altrove.
Etnocentrismo
La comunicazione etnocentrica si dà in questa distinzione: noi/loro, nativi e non nativi. La coppia pronominale noi/loro è inclusiva/escludente; include i membri di una comunità, esclude gli estranei: fonda lo ius sanguinis. Ma i criteri di inclusione/esclusione non sono statici, dipendono da elementi mitici, dati per scontati, anzitutto e perlopiù, riguardano le donne, le comunità che professano credi differenti, i nomadi, elementi costitutivamente estranei. Il romanzo di Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta – la lettera maiuscola A di adultera, da apporre sul vestito di Hester Prynne – è esemplare dell’esclusione di una donna per adulterio; le invettive di Hitler contro gli ebrei – che, prima dell’avvento del nazismo, erano parte fondamentale della società tedesca – è un altro esempio di esclusione; anche gli ebrei furono costretti a cucire la stella di David sopra il vestito.
Le invettive di Trump e Vance contro l’Europa ci costringeranno a indossare una E cucita sui nostri vestiti? I toni sono simili, noi europei predichiamo la libertà sessuale e siamo gli scrocconi di turno. La comunicazione etnocentrica non mette in questione le risorse culturali e conoscitive possedute; esse sono la verità. Dipendono da quanto viene tramandato e manipolato dalle generazioni dominanti, mentre le generazioni dissidenti vengono escluse, deportate, annientate a partire da miti dominanti, duali: amico/nemico, uomo/donna, autoctono/estraneo, bianco/nero, europeo/americano, ecc.
Modernismo
La terza forma di comunicazione che Pearce descrive è quella moderna, modello di comunicazione dominante nella scienza post-galileiana. Ha le sue premesse nella filosofia illuminista e si fonda sulla coerenza argomentativa. Nasce l’idea che, attraverso la comunicazione tra individui o gruppi, il migliore argomento convinca gli altri e cambi le premesse e le risorse culturali in base a criteri ragionevoli. Prevalgono, in questi casi, i pronomi personali al singolare io/tu, che definiscono individui/soggetti cartesiani e mettono a rischio le convinzioni di ognuno: “Osa sapere!” scriveva Kant. Esseri abitati dal dubbio metodico, che li costringe a una soggettività trascendentale, un io puro che, nell’analizzare un fenomeno senza pregiudizio, non può che giungere alle medesime conclusioni di chiunque altro al suo posto. Se si ragiona insieme, ci si dispone a cambiare le posizioni e le pratiche. Il filosofo Karl-Otto Apel e il sociologo Jurgen Habermas – richiamandosi al motto di Leibniz calculemus e all’idea di Charles Sanders Peirce di socialismo logico – pensano alla ricerca di coerenza e all’accordo universale. Progetto in cui la disposizione a mettere a rischio le proprie risorse argomentative porta a una convergenza – asintotica se si vuole – di idee, in un processo di potenziale infinito conversare. Questa forma di comunicazione sembra perfetta, almeno in potenza, giacché la perfezione assoluta non è di questo mondo.
Tuttavia, questo progetto, proprio perché infinito e aperto al continuo cambiamento, determina uno strano circuito di ossessiva ricerca del superamento di sé: questo è vecchio, cambiamolo, questo è nuovo, celebriamolo, ma è già vecchio, dunque cambiamolo. Così all’infinito. Per esempio, la comunicazione presso l’industria automobilistica consiste in un irrefrenabile bisogno di rifare auto sempre migliori. L’auto non è più un normale mezzo di trasporto, ma necessita di sempre maggiore sicurezza, comfort, risparmio, potenza, ecc., bisogna cambiarla perché invecchia subito. La società opulenta è l’effetto collaterale di questo fenomeno quando si accompagna alla convinzione che lo status sociale si acquisisce per merito: la meritocrazia.
Cosmopolitismo
La quarta forma di comunicazione, Pearce la chiama “cosmopolita”. Questa forma di comunicazione sembra anch’essa una sorta di socialismo, ma, più che logico, è socialismo dia-logico. Non si fonda sulla coerenza, ma sul coordinamento, non si tratta di convincere l’altro alle proprie idee, o di cambiare le proprie idee sulla base della maggiore coerenza delle idee altrui. Si tratta di non mettere a rischio le posizioni di ognuno, di trovare un sistema in cui ideologie, posizioni, pratiche di vita diverse possano coesistere. Ricorda forse l’idea di Spinoza di libertà, come condizione dello stato di natura. Tuttavia, Pearce si rende conto della dimensione utopica di questa comunicazione. Annovera alcuni esempi di questa comunicazione: lo sciamanesimo Inuit, l’Aikido, l’approccio milanese alla terapia familiare, aggiungerei l’esperienza di Basaglia a Gorizia, quella di Ronald Laing a Kingsley Hall a Londra.
Lo stesso Pearce si è dato a praticare questa esperienza in diversi casi. Con Eduardo Villar e Sara Cobb – in Colombia, durante il periodo della guerra per bande tra spacciatori, guerriglia ed esercito – ha provato a creare spazi di confronto diretto tra queste tre forze, tra loro antagoniste, senza successo. Ha provato – attraverso un progetto definito Keleidoscope – a far dialogare gruppi antiabortisti e forze favorevoli all’interruzione di gravidanza, con qualche parziale successo locale, in alcune aree degli Stati Uniti.
Come definire la comunicazione cosmopolita? La chiamerei utopia concreta. Ha carattere evanescente, come nei versi di John Keats: A thing of beauty is a joy forever
Il problema della comunicazione cosmopolita è che ha carattere impolitico. L’ultimo grido in questa direzione in Europa fu lanciato da Jaques Derrida verso la fine degli anni Ottanta – coevo alle considerazioni di Pearce – nel testo Cosmopoliti di tutti i paesi ancora uno sforzo, edito da Cronopio.
Il rapporto psichico città/campagna
Derrida scrive a proposito del progetto delle città rifugio. Si tratta di città presso le quali chiunque, ricercato da forze di potere – polizia, esercito, governi, magistrature – possa venire protetto da norme che permettano alle città rifugio di evitare l’estradizione. È un progetto paradossale, prevede di prescrivere l’imprescrittibile. Chissà che un domani, dovesse realizzarsi l’utopia concreta, quando i furfanti che governano diversi paesi del mondo fossero perseguiti per le loro nefandezze, potrebbero andare a rifugiarsi nelle città rifugio e venire protetti dalla furia vendicativa di chi ha subito quanto hanno perpetrato. In queste città ci sarebbe un Hitler come quello creato da Cattelan, che chiede perdono in ginocchio. Oggi tutto ciò è caduto nell’oblio, non ci rimane che questa ironia.
Invece, ironia della sorte, oggi le città sono sotto assedio. Viviamo dentro isole di democrazia urbana – Istambul, New York, Roma, Budapest – circondati dalla vandea delle masse. Le città che resistono si sono trasformate in ghetti di democrazia e la democrazia è ora il luogo dell’emarginazione. Le città sono diventate il rifugio per una minoranza di persone cosmopolite, che credono ancora nel dia-logo, verremo sterminati? Oggi siamo assediati da una massa che inneggia ad Anders Breivik, il feroce assassino che ha massacrato, con proposito cosciente, una quantità di studenti universitari – futuri intellettuali – con un proposito politico consapevole, per mettere in atto quanto sta accadendo oggi nel mondo occidentale.
Il progetto di Anders Breivik non è lo sterminio degli immigrati, è la loro deportazione fuori dell’Europa. Il progetto Breivik è lo sterminio degli europei democratici.
La risposta di un paese cosmopolita – la Norvegia a quel tempo – fu: vent’anni di carcere. Così nel dialogo tratto dal libro di Åsne Seierstad, Uno di noi:
«Mi considerate tutti un mostro, non è vero?»
«La consideriamo un essere umano».
«Mi giustizierete. Me e tutta la mia famiglia».
«Siamo pronti a proteggere la sua famiglia, se fosse necessario. Per noi una vita è una vita. Lei sarà trattato esattamente come chiunque altro».
Questo il paradosso del cosmopolitismo: nel cosmopolitismo, anche Breivik potrebbe trovare ospitalità.
Mi sia permesso un delirio sul delirio: il delirio di Breivik oggi è diffuso nelle campagne. Siamo di fronte a una nuova vandea.
Ma ecco il mio delirio:
Secondo alcuni preistorici, homo necans nasce con la formazione di gruppi che esercitano la produzione agricola, che si stanziano, creano confini e si appropriano della terra. Perdono il carattere nomadico dei raccoglitori e dei cacciatori, le armi della caccia, le rivolgono verso l’estraneo, la violenza interspecie, volta al procurare cibo, si trasforma in violenza intraspecie, volta al cannibalismo e al sacrificio umano. Abbiamo passato millenni nel tentativo di trasformare la coltura in cultura, ma dobbiamo arrenderci all’assedio, gli oppositori vengono sacrificati ovunque: in Russia, in Cina, in Turchia, in Ungheria e negli Stati Uniti.
Una studente turca mi ha fatto conoscere un’utopia concreta diversa dalla comunicazione cosmopolita, un lamento nella forma della poesia di Şükrü Erbaş. Poeta non ancora tradotto in italiano. In inglese l’opera che mi è stata segnalata si intitola Why Should We Kill the Peasants?, “Perché dovremmo uccidere i contadini?”
Perché sono indolenti/ contro ogni cambiamento del mondo/ vivono indifferentemente, resistono a tutto/ come cardi assetati,/ rigidi come muri./ Sono stupidi, villani e furbi/ Mentono facilmente mostrando di meritare fiducia/ anche quando hanno i soldi/ hanno il talento di apparire poveri/ se ne fregano di tutto e maledicono chiunque/ Non pensano mai alla/ pioggia, al vento, al sole/ e arano fino al bordo del campo altrui/ per avere più terra per loro./ Perché dovremmo uccidere i contadini?/ Perché picchiano le mogli/ e mai parlano in tono pacato/ più fuori si accodano,/ più sono tiranni in casa./ Non leggono i giornali, né si rivoltano mai/ contro l’ingiustizia a meno che non li riguardi direttamente./ Anche quando c’è acqua nel villaggio/ i loro vestiti sono lerci/ con la barba incolta sul volto./ Non educano i figli/ Non hanno libri in casa, né dipinti, né musica./ Non si lavano i denti e/ si levano il cappello solo per andare a letto.
Il poema continua a lungo e la mia traduzione dall’inglese è del tutto inadeguata. Ma la marca poetica di questi versi è chiara. Negli anni Trenta, di fronte all’insorgere dei totalitarismi, Ortega y Gasset scriveva La ribellione delle masse. Oggi ci vorrebbe una rivolta contro la ribellione delle masse. La ribellione delle masse ci sta portando verso la condizione in cui i contadini dei versi di Sükrü Erbas stanno tornando a dominare il mondo.
Barnett Pearce fu un mio insegnate e divenne un amico. Morì prematuramente nel 2011 a sessantotto anni. Purtroppo, il mondo, durante questi trent’anni, è andato esattamente dalla parte opposta rispetto al desiderio di creare anche solo isole evanescenti a orientamento cosmopolita. Assistiamo a uno smantellamento progressivo e massiccio del cosmopolitismo. Tuttavia, non è un’élite dispotica che sta trasformando il mondo: è la massa, la maggioranza.
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Immagine di copertina:
Charles Louis Müller, L’appello delle ultime vittime del terrore nel carcere di Saint Lazare, c. 1850